Salvo poche eccezioni, la collezione dei dipinti Bagatti Valsecchi è composta da opere su tavola quattro-cinquecentesche riferibili prevalentemente all’ambito toscano, lombardo e, in misura minore, veneto. Il sontuoso allestimento domestico affianca opere di grandi autori – la più nota delle quali è senz’altro la Santa Giustina di Giovanni Bellini – a dipinti di maestri minori, talvolta riferibili ad aree appartate quali la zona lariana o le vallate bergamasche. Le cornici neorinascimentali riescono ad armonizzare le opere allestite negli ambienti e a trasformare ante di polittici smembrati – una tipologia ben rappresentata in collezione – in dipinti godibili di per sé, attenuandone l’identità di scomparto già inserito entro un’opera più articolata.
Maestro vetraio su cartone di pittore di ambito fiammingo (?)
Secondo-quarto decennio del XVI secolo
Vetrata a grisaille e giallo d'argento con inserti policromi
70.5 × 58 cm
Inv. 1392
La vetrata presenta il tema della Crocifissione con uno schema compositivo inusuale: i due ladroni crocifissi sono disposti diagonalmente rispetto a Cristo, che appare di tre quarti, con le braccia aperte sulla stessa diagonale. La scena rappresenta il momento più drammatico della passione di Cristo, evidenziato dalla scritta "CONSUMATUM EST". I soldati romani, con la lancia di Longino, e un anziano (forse Giuseppe d'Arimatea) sono presenti ai piedi della croce, mentre si nota un uomo che scende da una scala dietro la croce e la spugna con l'aceto con cui fu dissetato Gesù.
La vetrata è composta da quattro tessere, con le due superiori caratterizzate da una lavorazione più fine e leggera, specialmente nella figura di Cristo, mentre le due inferiori mostrano tratti più marcati e intensi. Alcuni dettagli, come i capelli dorati della figura virile a sinistra, sono realizzati con il giallo d'argento, una tecnica tipica del Cinquecento.
Le caratteristiche stilistiche di questa vetrata sono attribuibili alla produzione vetraria centro-europea della metà del XVI secolo, particolarmente diffusa in Germania e Fiandre, con influssi evidenti della grafica di Albrecht Dürer. Si ipotizza che l’opera possa essere stata realizzata da un maestro vetraio svizzero-tedesco, probabilmente proveniente dal Bernese o dal cantone di San Gallo. Questa ipotesi è rafforzata dalla presenza di vetrate simili conservate al Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, raffiguranti scene simili e attribuite a maestri della Germania meridionale. Una di queste, datata 1519, potrebbe fornire un riferimento cronologico per la piccola vetrata della collezione Bagatti Valsecchi.
Maestro vetraio lombardo su cartone di pittore lombardo
1511
Vetrata policroma a grisaille
160 × 140 cm
28 x 53 cm senza cornice
Inv. 1054
La vetrata, in buone condizioni, presenta un'iscrizione centrale con la scritta "SANCTUS/STEPHANUS" la data "MDXI". Durante una mostra del 1988, la vetrata fu sottoposta a pulizia e restauro, inclusa la risaldatura di giunti di piombo.
Molti interventi risalgono al restauro del 1885 eseguito da Pompeo Bertini, come testimoniato da una ricevuta. In particolare, Bertini aggiunse porzioni di vetro dipinti e rinnovò le legature in piombo. La lunetta e la mano destra del santo furono rifatte da Bertini, insieme ad altri elementi della cornice.
La cornice mostra segni di vari restauri: alcune tessere originali con disegni accurati e ombreggiature, altre con disegni più approssimativi, e altre ancora, di tonalità ambrata, attribuibili all'autore della lunetta.
Girolamo da Treviso il Giovane
Prima metà del XVI sec.
Affresco trasportato su tela
215 × 190 cm
forma trapezoidale
Inv. 1400
Affresco strappato e riportato su tela rappresentante Vulcano intento a forgiare le armi alla presenza di Venere, Cupido e un soldato.
Le tre divinità sono disposte attorno al ceppo sul quale è posta l’incudine del dio del fuoco, mentre il soldato, alle loro spalle, determina l’impostazione piramidale della composizione.
L’affresco sintetizza elementi della cultura romana – evidenti nella plastica resa anatomica dei corpi degli dei – con effetti chiaroscurali tipici dell’area padana, espliciti nella rifrangenza della luce sull’armatura del soldato, sui supporti metallici e sulle ondulate ciocche di capelli di Venere.
Inizialmente, questo ricco linguaggio era stato avvicinato al ductus di un pittore lombardo come Giulio Campi o il Romanino; attualmente, invece, la critica ha ricondotto l’opera alla mano di Girolamo da Treviso il Giovane, pittore attivo in area bolognese, documentato nel 1527 a Mantova, sotto la direzione di Giulio Romano, come frescante della sala dei Venti in Palazzo Te.
L’attribuzione al pittore trevigiano sarebbe corroborata dai preziosismi di matrice ferrarese e dalla sapiente interpretazione del cromatismo d’impronta veneta mediato dalle opere del Pordenone, documentato a Mantova nel 1520.
Pittore fiorentino
Inizio XV sec.
Tempera su tavola
54 × 27 cm
Inv. 0984
La tavola rappresenta la Madonna in trono con il Bambino, circondata dai Santi Tommaso d’Aquino, Domenico e Francesco sulla sinistra e Giovanni Battista, Pietro Martire e
Antonio da Padova sulla destra.
Inginocchiato in primo piano, accanto a San Francesco, vi è un ulteriore santo di difficile identificazione a causa della mancanza di specifici attributi iconografici.
Le figure si inseriscono su un prezioso fondo oro riccamente lavorato e sono caratterizzate da una netta linea di contorno, affine ai modi del Maestro del Tabernacolo Johnson, pittore attivo a Firenze nella prima metà del Quattrocento formatosi sui modelli di Bicci di Lorenzo.
A causa di numerose integrazioni e ridipinture il dipinto presenta uno stato di conservazione precario; risulta pertanto difficoltosa una corretta attribuzione e datazione dell’anconetta che è stata prudentemente avvicinata all’ambito fiorentino della fine del XIV secolo.
Maestro vetraio lombardo su cartone di Bernardino de Donati (?)
1520 circa
Vetrata policroma a grisaille
97.5 × 86.5 cm
Inv. 0977
La parte superiore della vetrata ha subito lesioni, soprattutto nell'area intorno alla testa di Cristo e della Maddalena, con segni evidenti di riparazioni, specialmente nel terzo superiore. Sono presenti inserti dovuti a un restauro ottocentesco, come vetri e tessere inserite per ricostruire parti mancanti, anche se alcuni di questi interventi risultano piuttosto insoliti o mal integrati, come la veste di Maria di Betania.
Nel restauro ottocentesco sono stati inseriti alcuni inserti provenienti da altre vetrate, che interrompono le aureole di Cristo e della Maddalena. Notevoli sono le due tessere rosse con putti alati, tipiche del Cinquecento. Durante il restauro furono anche sostituite le mani di Maria di Betania e altre parti, come la testa velata della donna inginocchiata.
Dal punto di vista stilistico, la vetrata è di chiara derivazione lombarda, milanese in particolare, e si colloca nel contesto artistico Quattrocento e Cinquecento. Le influenze nordiche, in particolare fiamminghe, sono evidenti nei volti e nei dettagli, mostrando come gli scambi culturali tra maestri vetrai abbiano arricchito l'arte lombarda dell'epoca.
Girolamo di Benvenuto
Inizio XVI sec.
Tempera su tavola
200 × 200 cm
Inv. 1015
All’interno di un ampio loggiato, caratterizzato da elementi classicheggianti e impreziosito da marmi policromi, si colloca la rappresentazione del Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria.
Il Bambin Gesù, sorretto dalla Vergine assisa in trono, sugella l’unione spirituale con la santa porgendole al dito l’anello dello sposalizio. Attorno al trono della Vergine si dispongono santa Elisabetta d’Ungheria, caratterizzata dalle rose che accosta al grembo, sant’Antonio da Padova, raffigurato con in mano il cuore simboleggiante il suo amore per Dio e san Bernardino da Siena che esibisce la tavoletta con il trigramma cristologico. Infine, inginocchiati ai piedi della Vergine, vi sono san Francesco, con il tradizionale saio dei conventuali, e san Girolamo che, accompagnato dal fido leone, si percuote il petto.
Il dipinto, unanimemente attribuito dalla critica a Girolamo di Benvenuto, è espressione della tarda maturità del pittore senese, da circoscrivere al secondo decennio del XVI secolo quando lo stile del maestro si dimostra più sensibile al classicismo di matrice umbra.
Pittore friulano
Fine XIV sec.
Tempera su tavola
99 × 55 cm
Inv. 1022
La Madonna è raffigurata seduta su un architettonico trono cuspidato mentre due angeli genuflessi, posti sulla sommità dello scanno, le sorreggono la corona.
Sulle ginocchia della Vergine è seduto un dinamico Bambino che stringe fra le mani un cardellino e una mezza noce: si tratta di simboli cristologici spesso associati al piccolo Gesù che – secondo Sant’Agostino – alludono alla Passione e alla
natura Divina di Cristo.
La tavola fu acquistata nel 1900 dai fratelli Bagatti Valsecchi all’asta della collezione del conte Cernazai a Udine, in cui fu presentata con l’attribuzione a Giovannutto da Gemona.
La mancanza di riscontri documentari induce oggi a riferire più cautamente l’opera a un anonimo pittore friulano, attivo nell’ultimo quarto del XIV secolo, aggiornato sui modi di Lorenzo Veneziano che declina in maniera più provinciale. Le analogie più stringenti si instaurano con le opere di Stefano Plebano da Sant’Agnese, pittore attivo in San Marco a Pordenone nel 1382. Tuttavia, certe ingenuità stilistiche impediscono un riferimento diretto a quest’autore.
Giovanni Ambrogio Bevilacqua
end of the 16th century
tempera on panel, gold- and silver-thread embroidery, stones, enamels, gilded glass, velvet, gilded mail
150 × 93 cm
inv. 980
Tavola devozionale raffigurante la Madonna con il Bambino
e due angeli musicanti, sovrastata dalla rappresentazione della figura fortemente scorciata di Dio padre circondato da cherubini.
L’opera si contraddistingue per la sua polimatericità, caratterizzata dall’utilizzo della tempera su tela accostata a materiali preziosi quali ricami di fili d’oro e d’argento, pietre, smalti e tessuti policromi che inducono a ipotizzare una committenza di alto rango.
Attribuita unanimemente dalla critica al pittore milanese Giovanni Ambrogio Bevilacqua, il tabernacolo ha destato
controversie circa la cronologia.
Per le stringenti analogie tecniche l’opera è stata rapportata alla Madonna con il Bambino delle civiche raccolte del Castello Sforzesco, dipinto stilisticamente precoce rispetto all’esemplare Bagatti Valsecchi; confronti più calzanti si instaurano invece con la Madonna con il Bambino e santi conservata presso la Pinacoteca di Brera e datata 1502. Entrambe le opere, affini allo stile del bresciano Vincenzo Foppa, dichiarano una stringente adesione ai modi del Bergognone, caratteristica che contraddistingue le opere eseguite da Bevilacqua intorno al 1500.
Pompeo Bertini su disegni di Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi
1885
Vetro incolore a grisaille, giallo d'argento e smalti policromi a "gran fuoco"
50 × 36.5 cm
inserite in pannello a rondelle incolori (44 intere, 4 metà) di 100 x 86,5 cm.
s.n. inv.
SaloneInsegna araldica inquartata: il quarto superiore sinistro presenta una banda azzurra inclinata verso il centro su sfondo giallo; il quarto superiore destro contiene una lettera B rossa su sfondo giallo; il quarto inferiore sinistro è bandato con strisce gialle su sfondo bianco; il quarto inferiore destro ha una banda verticale centrale azzurra su sfondo rosso, attraversata diagonalmente da un vessillo giallo chiaro avvolto attorno a un'asta.
Nella parte superiore si notano interventi di restauro con rimpiazzi e piombi di rottura particolarmente evidenti sulla parte sinistra del manufatto.
Le cornici che racchiudono gli ovali araldici sono elaborate e decorate con elementi geometrici e motivi come cartigli, volute e mascheroni, realizzati in grisaille bruna con tocchi di giallo d'argento. Le sei vetratine, create nel 1885 da Pompeo Bertini su disegno dei Bagatti Valsecchi, non corrispondono a stemmi nobili noti, suggerendo che siano frutto di fantasia con un tocco ironico, pensati per decorare la "sala delle feste".
Arcangelo di Jacopo del Sellajo
Inizio XVI sec.
Tempera mista a olio su tavola
Ø 90 cm
Inv. 0993
Il tondo raffigura un’elegante Madonna con il Bambino affiancata da San Giovannino e San Francesco d'Assisi. La Vergine, rappresentata con una tunica rossa e un manto scuro finemente bordato di oro, affine ai modi di Filippo Lippi,
rivolge un dolce sguardo al Bambino che, disordinatamente seduto sulle sue ginocchia, è colto mentre sta giocando con il velo materno.
Ai lati della composizione vi sono San Giovannino e San Francesco d’Assisi, il primo caratterizzato dalla tunica in pelle di cammello e dalla croce astile, il secondo contraddistinto dalle stimmate sul costato e dai canonici attributi iconografici: il libro e la croce astile che sorregge con la mano sinistra.
Il dipinto, strettamente legato alla produzione del pittore fiorentino Jacopo del Sellajo, è da riferire al figlio Arcangelo, artista già noto con il nome di «Maestro del Tondo Miller». Il catalogo di questo pittore è stato ricostruito da Everett Fahy sulla base del tondo conservato presso il Fogg Art Museum di Cambridge mentre la corretta identificazione con Arcangelo di Jacopo del Sellajo si deve a Nicoletta Pons.
Pompeo Bertini su disegni di Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi
1885
Vetro incolore a grisaille, giallo d'argento e smalti policromi a "gran fuoco"
50 × 36.5 cm
inserite in pannello a rondelle incolori (44 intere, 4 metà) di 100 x 86,5 cm.
s.n. inv.
SaloneInsegna araldica in campo azzurro, suddiviso in due parti da un triangolo rosso. Dal cateto superiore, coincidente con il diametro minore di un'ellisse, emerge la metà superiore di un fiero leone rampante di colore giallo. Nella parte inferiore del triangolo, è posta una stella gialla a sei punte.
Le cornici che racchiudono gli ovali araldici sono elaborate e decorate con elementi geometrici e motivi come cartigli, volute e mascheroni, realizzati in grisaille bruna con tocchi di giallo d'argento. Le sei vetratine, create nel 1885 da Pompeo Bertini su disegno dei Bagatti Valsecchi, non corrispondono a stemmi nobili noti, suggerendo che siano frutto di fantasia con un tocco ironico, pensati per decorare la "sala delle feste".
Pompeo Bertini su disegni di Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi
1885
Vetro incolore a grisaille, giallo d'argento e smalti policromi a "gran fuoco"
50 × 36.5 cm
inserite in pannello a rondelle incolori (44 intere, 4 metà) di 100 x 86,5 cm.
s.n. inv.
SaloneInsegna araldica in cui nella metà superiore è presente un'aquila nera in campo giallo, mentre nella metà inferiore è presente un leone rampante giallo tra fasce rosse alternate a fasce azzurre.
Le cornici che racchiudono gli ovali araldici sono elaborate e decorate con elementi geometrici e motivi come cartigli, volute e mascheroni, realizzati in grisaille bruna con tocchi di giallo d'argento. Le sei vetratine, create nel 1885 da Pompeo Bertini su disegno dei Bagatti Valsecchi, non corrispondono a stemmi nobili noti, suggerendo che siano frutto di fantasia con un tocco ironico, pensati per decorare la "sala delle feste".
Pompeo Bertini su disegni di Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi
1885
Vetro incolore a grisaille, giallo d'argento e smalti policromi a "gran fuoco"
50 × 36.5 cm
inserite in pannello a rondelle incolori (44 intere, 4 metà) di 100 x 86,5 cm.
s.n. inv.
SaloneInsegna araldica composta da bande rosse su sfondo bianco, con un calzare nero al centro. Si ritiene che sia l'unico simbolo legato alla famiglia Bagatti. Il termine "Bagatt" in dialetto milanese significa "ciabattino". Si può pensare che l'uso di un oggetto comune come stemma sia stato un modo per sottolineare l'identità milanese della famiglia nobile.
Le cornici che racchiudono gli ovali araldici sono elaborate e decorate con elementi geometrici e motivi come cartigli, volute e mascheroni, realizzati in grisaille bruna con tocchi di giallo d'argento. Le sei vetratine, create nel 1885 da Pompeo Bertini su disegno dei Bagatti Valsecchi, non corrispondono a stemmi nobili noti, suggerendo che siano frutto di fantasia con un tocco ironico, pensati per decorare la "sala delle feste".
Antonio Boselli
1495
Affresco trasportato su tavola
233 × 355 cm
Inv. 1016
L’affresco, firmato dal pittore e scultore Antonio Boselli nel 1495, rappresenta una statuaria Madonna della Misericordia affiancata dai Santi Pietro e Maria Maddalena.
La Vergine accoglie nel suo ampio mantello una folta schiera di devoti appartenenti a una confraternita di disciplinati e tre figure di donatori, inginocchiati accanto ai membri della congregazione, connotati da una vena ritrattistica. Concludono la composizione otto angeli musicanti che, disponendosi simmetricamente attorno alla Vergine, le sostengono il soggolo e il manto.
Situato originariamente nel coro della chiesa parrocchiale dei santi Vincenzo e Alessandro a Ponteranica, l’affresco venne
strappato tra il 1871 – anno in cui Cavalcaselle lo vide ancora in loco – e il 1885, quando fu trasportato su tela dal restauratore Giuseppe Steffanoni. Montato su supporto ligneo negli anni Sessanta del Novecento, il dipinto si colloca nella fase giovanile del pittore bergamasco, caratterizzata da una sensibile rigidità delle figure, retaggio della sua attività di scultore.
Bernardo Zenale
1507
tempera and oil on board
99 × 31.2 cm
inv. 987
Il dipinto rappresenta la figura stante di San Francesco d’Assisi disposta all’interno di una loggia aperta sul paesaggio circostante, connotato da elementi rocciosi di derivazione leonardesca.
Il santo, caratterizzato dal sobrio saio francescano lacerato dalle stimmate, sostiene con una mano un libro e con l’altra la croce astile.
L’opera era originariamente connessa al dipinto raffigurante San Giovanni Battista (inv. 988); le due tavole costituivano insieme lo scomparto sinistro di un polittico proveniente dalla cappella dell’Immacolata Concezione della chiesa di San Francesco a Cantù.
Il pannello destro, con i Santi Stefano e Antonio da Padova è attualmente conservato presso il Museo Poldi Pezzoli di Milano, mentre la tavola centrale raffigurante la Madonna con il Bambino e angeli cantori è ora al Paul Getty Center di Los Angeles. Tra il settimo e l’ottavo decennio dell’Ottocento, dopo la soppressione della chiesa canturina, i pannelli laterali giunsero in collezione Longhi per essere successivamente immessi sul mercato antiquario milanese, subendo decurtazioni e ridipinture atte a trasformarli in quattro pannelli indipendenti.
Attribuite unanimemente dalla critica a Bernardo Zenale, le tavole furono realizzate dal pittore trevigliese tra il 1502 e il 1507, come dimostra il documento di commissione reperito da Janice Shell in occasione della mostra «Zenale e Leonardo» tenutasi al Museo Poldi Pezzoli nel 1982.
Pompeo Bertini su disegni di Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi
1885
Vetro incolore a grisaille, giallo d'argento e smalti policromi a "gran fuoco"
50 × 36.5 cm
inserite in pannello a rondelle incolori (44 intere, 4 metà) di 100 x 86,5 cm.
s.n. inv.
SaloneInsegna araldica con toro marrone in campo giallo; al centro è presente una mano benedicente e in alto tre stelle a cinque punte bianche.
Le cornici che racchiudono gli ovali araldici sono elaborate e decorate con elementi geometrici e motivi come cartigli, volute e mascheroni, realizzati in grisaille bruna con tocchi di giallo d'argento. Le sei vetratine, create nel 1885 da Pompeo Bertini su disegno dei Bagatti Valsecchi, non corrispondono a stemmi nobili noti, suggerendo che siano frutto di fantasia con un tocco ironico, pensati per decorare la "sala delle feste".
Bottega lombarda
XVI sec.
Affresco trasportato su tela
Ø 80 cm
Inv. 1399
Museo Bagatti ValsecchiSulla cappa del camino del grande salone di casa Bagatti Valsecchi è collocata l’imponente rappresentazione di Nettuno, inserito in un tondo con sfondo a scacchi bianchi e rossi.
Il dio del mare è raffigurato come un uomo di mezza età, con lunghi capelli e una folta barba, colto mentre impugna con fermezza il tridente; è rappresentato di schiena, seduto su uno sperone roccioso con le gambe accavallate in una contorta posa scorciata di tre quarti che evidenzia la tensione plastica e muscolare.
Si tratta di un affresco strappato e riportato su tela di canapa, applicato direttamente sul supporto del camino, di cui si ignora la provenienza e l’autorialità, generalmente riferita all’ambito cremonese del Cinquecento.
Il virtuosismo plastico e la ricercatezza anatomica evocano la maniera dei nudi virili di Giulio Romano, attivo dal 1524 alla corte dei Gonzaga a Mantova, città che esercitò influenze artistiche e culturali sulla vicina Cremona.
Bernardo Zenale
1507
tempera and oil on panel
99 × 31.2 cm
inv. 988
Il dipinto rappresenta la figura stante di San Giovanni Battista disposta all’interno di una loggia aperta sul paesaggio circostante, connotato da elementi rocciosi di derivazione leonardesca.
Il santo è raffigurato con la croce astile tra le mani, indossa la tradizionale veste di peli di cammello e il suo aspetto eremitico e penitenziale è enfatizzato dal volto scavato, la folta barba e i capelli scomposti.
L’opera era originariamente connessa al dipinto raffigurante San Francesco d’Assisi (inv. 987); le due tavole costituivano insieme lo scomparto sinistro di un polittico proveniente dalla cappella dell’Immacolata Concezione della chiesa di San Francesco a Cantù.
Il pannello destro, con i Santi Stefano e Antonio da Padova è attualmente conservato presso il Museo Poldi Pezzoli di Milano, mentre la tavola centrale raffigurante la Madonna con il Bambino e angeli cantori è ora al Paul Getty Center di Los Angeles.
Tra il settimo e l’ottavo decennio dell’Ottocento, dopo la soppressione della chiesa canturina, i pannelli laterali giunsero in collezione Longhi per essere successivamente immessi sul mercato antiquario milanese, subendo decurtazioni e ridipinture atte a trasformarli in quattro pannelli indipendenti.
Attribuite unanimemente dalla critica a Bernardo Zenale, le tavole furono realizzate dal pittore trevigliese tra il 1502 e il 1507, come dimostra il documento di commissione reperito da Janice Shell in occasione della mostra «Zenale e Leonardo» tenutasi al Museo Poldi Pezzoli nel 1982.
Pompeo Bertini su disegni di Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi
1885
Vetro incolore a grisaille, giallo d'argento e smalti policromi a "gran fuoco"
50 × 36.5 cm
inserite in pannello a rondelle incolori (44 intere, 4 metà) di 100 x 86,5 cm.
s.n. inv.
SaloneInsegna araldica divisa in due parti: la metà superiore mostra un'aquila nera su sfondo giallo chiaro, mentre la metà inferiore presenta una dentellatura a doppia greca, sempre su sfondo giallo, ma più scuro. La parte destra della metà inferiore appare come un rimpiazzo successivo, evidente dalla differenza nella qualità della fattura e nel colore.
Le cornici che racchiudono gli ovali araldici sono elaborate e decorate con elementi geometrici e motivi come cartigli, volute e mascheroni, realizzati in grisaille bruna con tocchi di giallo d'argento. Le sei vetratine, create nel 1885 da Pompeo Bertini su disegno dei Bagatti Valsecchi, non corrispondono a stemmi nobili noti, suggerendo che siano frutto di fantasia con un tocco ironico, pensati per decorare la "sala delle feste".
Giovanni Pietro Brentani
Seconda metà del XV sec.
Tempera su tavola
295 × 255 cm
Inv. 1026
Il complesso polittico raffigura la Madonna con il Bambino tra i Santi Bernardino e Pietro Martire sulla sinistra e i Santi Pietro Apostolo e Giovanni Battista sulla destra.
Nella ricca carpenteria dorata, caratterizzata da rilievi a pastiglia, sono presenti altre tavole di minori dimensioni: nei pilastrini laterali vengono tratteggiate le figure di un Santo abate, un Santo vescovo, un Santo cavaliere e San Sebastiano, mentre le losanghe che dividono il registro inferiore dalle cimase riportano le rappresentazioni dei profeti Davide e Mosè.
Nella cimasa che sovrasta la tavola centrale vi è dipinta la Crocifissione mentre la raffigurazione dell’Annunciazione è divisa nelle due cimase laterali: a sinistra l’arcangelo Gabriele, a destra la Vergine annunciata.
Infine, la predella riporta l’inconsueta rappresentazione del Vir dolorum tra gli apostoli e la riproduzione di due stemmi che sono stati ricondotti allo scudo gentilizio della famiglia Della Torre di Rezzonico.
I due stemmi hanno indotto la critica a supporre una commissione da parte della famiglia rezzonichese per una delle fondazioni domenicane da loro promosse nelle località di Rezzonico e Bellano.
Il retablo è stato ricondotto alla mano di Pietro Brentani per le forti affinità stilistiche che lo legano al polittico firmato e datato 1467 della parrocchiale di San Giorgio a Varenna, sul lago di Como.
Giovanni Bellini
1470 ca
tempera on panel
129 × 55 cm
inv. 986
La tavola rappresenta una monumentale Santa Giustina stagliata su un intenso cielo blu assiepato di nuvole.
La santa, identificabile dal pugnale che le trafigge il petto, è ritratta a figura intera, riccamente abbigliata con un manto rosato e una lunga veste verde oliva che ricade morbidamente fino ai piedi; le vesti sono arricchite da sontuosi gioielli che impreziosiscono l’intera figura.
La santa stringe al petto un libro finemente rilegato mentre con la mano destra sorregge leggiadramente la palma del martirio.
La tavola, documentata in collezione Bagatti Valsecchi almeno dal 1882 – anno di celebrazione del matrimonio tra Giuseppe Bagatti Valsecchi e Carolina Borromeo – è stata verosimilmente acquistata sul mercato antiquario veneziano. Il dipinto è stato oggetto di un acceso dibattito critico incentrato principalmente sul tema dell’attribuzione e della cronologia. In particolare, sebbene l’opera fu Inizialmente attribuita ad Alvise Vivarini, essa è stata successivamente avvicinata dalla critica al catalogo di Giovanni Bellini.
Il dibattito critico circa la datazione dell’opera, tuttavia, non si è rivelato altrettanto unanime: ritenuta originariamente un’opera giovanile dalla forte ascendenza mantegnesca da circoscrivere al 1460, è stata poi posticipata agli anni Ottanta per le affinità stilistiche avvertite con le opere di Antonello da Messina.
Infine, sulla base di riscontri documentari, la tavola è stata ricondotta alla committenza milanese della famiglia Borromeo e la datazione si è assestata in maniera dirimente all’ottavo decennio del Quattrocento.
Baldassarre Carrari
Inizio XVI sec.
Tempera su tavola
91 × 45 cm
Inv. 0990
La tavola raffigura San Giovanni Evengelista immerso in un suggestivo sfondo paesistico.
Il santo, raffigurato a figura intera, indossa una lunga tunica marrone coperta da un ampio drappo rosso. San Giovanni Evangelista, raffigurato con un libro in mano, è identificabile dai suoi attributi iconografici, l’aquila e il libro posti ai suoi piedi.
La tavola, insieme al suo pendant raffigurante San Giovanni Battista (inv. 989), costituiva verosimilmente il pannello laterale di un più ampio polittico.
Attribuiti da Toesca al forlivese Baldassarre Carrari il Giovane, i dipinti si pongono in stretto dialogo con la Madonna con il Bambino tra i Santi Giacomo e Lorenzo, conservata presso la Pinacoteca di Brera.
Le tavole Bagatti Valsecchi, databili intorno alla metà del primo decennio del Cinquecento, pur conservando affinità con i modelli ferraresi, esprimono una chiara ascendenza veneta, filtrata attraverso la lezione di Nicolò Rondinelli
Baldassarre Carrari
Inizio del XVI sec.
Tempera su tavola
91 × 45 cm
Inv. 0989
La tavola raffigura San Giovanni Battista immerso in un suggestivo sfondo paesistico, animato da vivaci figure di gusto fiabesco.
Il santo, dal tradizionale aspetto eremitico, indossa la tunica di pelle di cammello e un ampio manto rosso con fini bordure dorate, ulteriore attributo iconografico è la croce astile che stringe nella mano sinistra.
Il dipinto, insieme al suo pendant raffigurante San Giovanni Evangelista (inv. 990), costituiva verosimilmente il pannello laterale di un più ampio polittico infatti, il Battista, con sguardo meravigliato, si volge alla sua sinistra indicando il soggetto raffigurato nella tavola originariamente posta accanto a lui.
Attribuiti da Toesca al forlivese Baldassarre Carrari il Giovane, i dipinti si pongono in stretto dialogo con la Madonna con il Bambino tra i Santi Giacomo e Lorenzo, conservata presso la Pinacoteca di Brera.
Le tavole Bagatti Valsecchi, databili intorno alla metà del primo decennio del Cinquecento, pur conservando affinità con i modelli ferraresi, esprimono una chiara ascendenza veneta, filtrata attraverso la lezione di Nicolò Rondinelli.
workshop of Francesco da Santa Croce
1550 circa
Olio su tavola
47.5 × 39 cm
Inv. 1020
Su uno sfondo paesistico si pone la raffigurazione di una Madonna con il Bambino e San Giovannino, caratterizzato dai tradizionali attributi iconografici: l’agnellino che stringe sotto il braccio e la croce astile sulla quale si srotola il cartiglio «Ecce Agnus Dei».
Il Bambino siede su un morbido cuscino posto sul grembo della Vergine e con una leggera torsione si volta verso San Giovannino, additando la sua croce, come a voler porre l’attenzione sul significato del cartiglio che rimanda al ruolo di vittima sacrificale incarnato da Cristo per la redenzione dei peccati.
Il dipinto, inizialmente avvicinato all’ambito bresciano del Moretto, per le affinità che si instaurano con la produzione degli allievi Luca Mombello e Agostino Gallazzi, è stato successivamente messo in rapporto con le opere del pittore
veneziano Francesco Rizzo da Santacroce.
La tavola esprime un linguaggio eclettico che unitamente allo stile veneziano congiunge incidenze segnatamente nordiche derivate dai modi di Dürer o del Mabuse, come le fisionomie e le anatomie dei bambini, definite da teste ovoidali, bocche minute e colli larghi.
Il precario stato conservativo impedisce una lettura critica più
concreta che induce ad avanzare con cautela l’appartenenza della tavola alla bottega di Francesco da Santacroce e a datarla nel tardo XVI secolo.
Francesco da Tolentino
Inizio XVI sec.
Olio su tavola
240 × 180 cm
Inv. 1001
Le tavole, che originariamente facevano parte di un più ampio disperso polittico, ora sono inserite in una cornice pseudo-rinascimentale di fine Ottocento.
Nel pannello di sinistra è raffigurato San Giovanni Evangelista, mentre in quello di destra è raffigurato un Santo Vescovo - probabilmente identificabile con San Nicola da Bari - accompagnato da un giovane coppiere.
La figura del giovane coppiere potrebbe alludere alla storia di un fanciullo cristiano (Basilio nei testi greci, Adeodato in quelli latini) che, rapito dai Saraceni e costretto a fare il coppiere di un emiro, fu liberato da San Nicola che lo riconsegnò alla sua famiglia.
Sul basamento della cornice si legge l’iscrizione "ORATE PRO NOSTRA OMNIUMQUE SALUTE" (pregate per nostra salvezza e quella di tutti).
Dopo un'iniziale attribuzione a un seguace del pittore bresciano Floriano Ferramola - che operò tra la fine del sec. XV e gli inizi del sec. XVI - le tavole sono state infine riferite a Francesco da Tolentino, pittore attivo in Italia centrale e meridionale tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo.
Francesco da Tolentino
Inizio XVI sec.
Tempera su tavola
175 × 97 cm
Inv. 1003
L’opera, di provenienza ignota, è costituita dai pannelli superstiti di un polittico, arbitrariamente ricollocati all’interno di una cornice ottocentesca; le due coppie di santi affiancavano verosimilmente un pannello centrale, oggi disperso, raffigurante una Madonna con il Bambino o una Crocifissione.
Collocati all’interno di nicchie dorate di gusto arcaizzante, le figure dei santi sono connotate da specifici attributi iconografici: san Francesco d’Assisi indossa il saio dell’ordine dei frati minori e mostra la piaga sul costato; san Giovanni Evangelista, avvolto in un ampio mantello rosso, stringe fra le mani un libro; san Michele arcangelo imbraccia uno scudo finemente decorato e infilza con la lancia il drago tratteggiato ai suoi piedi; infine, sant’Antonio da Padova raffigurato con il saio francescano, avvicina a sé un libro e il giglio.
L’opera è stata inizialmente avvicinata all’ambito cremonese della fine del XV – inizio XVI secolo, affine ai modi di Alessandro Pampurino e di Paolo Antonio de’ Scazoli. Recentemente è stata invece attribuita al marchigiano Francesco da Tolentino.
Francesco De Tatti
1510
Tempera su tavola
188 × 195 cm
Inv. 0999
All’interno di una ricca carpenteria dorata in stile rinascimentale, caratterizzata dalla presenta di due grandi monogrammi di San Bernardino, si dispongono tre tavole centinate raffiguranti San Giovanni Battista, la Crocifissione di Cristo e un Santo cavaliere martire, dubitativamente identificabile con San Vittore.
La tavola centrale, di dimensioni maggiori, raffigura la Crocifissione ed è ambientata all’esterno delle mura di Gerusalemme alla presenza della Vergine Maria, di Giovanni Evangelista e di Maria Maddalena dolente ai piedi della croce. I santi dei pannelli laterali si rivolgono simmetricamente verso lo scomparto centrale: il Battista è contraddistinto dalla peculiare veste di peli di cammello e il mantello rosso, ed esibisce il cartiglio «Ecce Agnus Dei» srotolato attorno alla croce astile; il Santo cavaliere è rappresentato in armatura con una spada legata al fianco, tra le mani stringe la palma del martirio e un vessillo bianco con la croce rossa.
Con tutta probabilità le tavole erano originariamente inserite in un più ampio polittico disposto su due livelli, che prevedeva la Crocifissione al centro del registro superiore e i due santi in quello inferiore, ai lati di una Madonna con Bambino.
L’attribuzione dell’opera, ancora fortemente dibattuta, è stata precedentemente ricercata tra l’area varesina e quella ticinese per le spiccate aderenze stilistiche con le opere di Bramantino e Giovanni Martino Spanzotti. I tratti ingenui e grossolani legano l’opera con la produzione dell’asconese Giovanni Antonio de Lagaia e del varesino Francesco de Tatti ma le evidenze maggiori si instaurano proprio con le opere del varesino di cui potrebbe costituire una primizia a monte della sua prima prova datata 1512, la Madonna del Musée des Beaux-Arts di Nancy.
Pietro Antonio de' Scazoli
1506
Tempera su tavola
130 × 61 cm
Inv. 1012
Datato e firmato alla base del trono dal pittore cremonese Paolo Antonio de’ Scazoli nel 1506, il dipinto raffigura una maestosa Madonna in trono con il Bambino.
Elegantemente seduta su uno scranno architettonico, la Vergine indossa una tunica rossa impreziosita da perle e gemme disposte sullo scollo della veste e un ampio mantello damascato. Il Bambino, teneramente in equilibrio sulla gamba destra della madre, indossa una collana di corallo, simbolo di salvezza, ed eleva con la mano sinistra il globo crucigero.
L’opera, già nella collezione cremonese del conte Visconti, poi presso Chiodelli, giunse in collezione Bagatti Valsecchi verosimilmente nel 1883.
Il dipinto, opera della tarda attività di Paolo Antonio de’ Scazoli, appare tenacemente ancorato ai moduli della generazione di Benedetto Bembo e alla cultura filoferrarese ma dimostra la conoscenza delle coeve esperienze cremonesi soprattutto nell’ovale del volto della Vergine affine al linguaggio boccaccinesco.
copy from Raffaellino Del Garbo
Inizio XVI sec.
Tempera mista a olio su tavola
Ø 86 cm
Inv. 0992
Ai piedi di un pacifico paesaggio collinare è raffigurata la Madonna in trono con il Bambino tra le Sante Maria Maddalena e Caterina d’Alessandria.
Il Bambino, sollevato sulle gambe della madre, si rivolge in atto benedicente verso Maria Maddalena contraddistinta dal vaso di unguento che stringe tra le mani. Al contrario, la Vergine, pur mantenendo il suo sguardo sul Bambino, rivolge il suo volto verso santa Caterina d’Alessandria connotata dai tradizionali attributi iconografici: la palma del martirio, il libro di preghiere e la ruota dentata.
L’opera è una copia di ridotte dimensioni tratta dal grande tondo di Raffaellino del Garbo conservato presso la National Gallery di Londra, un dipinto schiettamente ispirato a modelli botticelliani e lippeschi, eseguito entro il primo decennio del Cinquecento.
La datazione della tavola Bagatti Valsecchi si deve invece collocare tra il primo e il secondo decennio del XVI secolo per la ricchezza di linguaggio espressa dal pittore che unitamente allo stile di Raffaellino del Garbo coniuga inflessioni leonardesche.
Antonio Della Corna
1494
Tempera su tavola
195 × 173 cm
Inv. 1028
Il dipinto raffigura l’Adorazione del Bambino affiancata dalla rappresentazione dei santi Giovanni Battista e Girolamo; la composizione è arricchita dalla raffigurazione della Resurrezione posta nella cimasa e da un’articolata predella nella quale sono effigiati i mezzi busti di san Francesco che riceve le stigmate, santa Caterina d’Alessandria, un santo vescovo, san Giuliano, san Martino che dona il mantello al povero e san Michele che sconfigge il demonio.
Il cartiglio ai piedi del Battista riporta il nome dell’autore, il pittore cremonese Antonio Della Corna, e la data di realizzazione, 1494, anno in cui il trittico fu collocato sull’altare di san Girolamo nella Pieve di Soncino.
La tavola, connotata da una schietta ascendenza mantegnesca, manifesta una chiara inflessione ferrarese, affine al corpus di opere che è stato riferito al nome di Vicino da Ferrara. Al contrario, le pitture presenti nella cimasa e nella predella risultano qualitativamente inferiori rispetto all’esecuzione del registro principale e sono da riferirsi ad aiuti, verosimilmente individuabili con i fratelli minori di Antonio, Luca e Sigismondo.
Apollonio Di Giovanni
Terzo quarto XV sec.
Tempera su tavola
94 × 46 cm
Inv. 0982
Piccola anconetta raffigurante una raffinatissima Madonna con il Bambino seduta su una vaporosa nube grigiastra dalla quale compaiono tre volti angelici.
La Vergine, caratterizzata da un’ampia tunica rossa e da un lungo mantello bordato di oro, esibisce tra le mani un fiore rosso, simbolo della Passione di Cristo; il piccolo Gesù, raffigurato con un leggero panneggio che gli cinge i fianchi, con una mano addita il fiore mostrato dalla madre, con l’altra stringe il frutto di un melograno, ulteriore simbolo della Passione. Due angeli musicanti stringono lateralmente la composizione mentre la raffigurazione di Cristo patiens conclude la rappresentazione sulla cimasa.
L’opera, dapprima avvicinata all’ambiente marchigiano, è stata successivamente ricondotta al catalogo del fiorentino Apollonio di Giovanni, pittore specializzato nell’esecuzione di cassoni dipinti.
La datazione del dipinto si può circoscrivere al settimo decennio del Quattrocento, periodo in cui l’artista aderisce al linguaggio cortese di Benozzo Gozzoli.
Giorgio di Giovanni
Metà XVI sec.
Pittura e doratura su legno
height: 190 cm
Inv. 0030
All’apice di una base triangolare di marmo, decorata con figure di sfingi, si innesta il candelabro realizzato in legno dorato con una terminazione a forma di tabernacolo.
Quest’ultimo è composto da quattro profili architettonici determinati da una struttura ad arco sorretta da due lesene, entro la quale si inserisce la figura di un santo: l’Arcangelo Raffaele con Tobiolo, San Pietro, Santa Caterina d’Alessandria e un Santo vescovo privo di attributi specifici.
Il candelabro e il suo pendant (inv. 31) furono pubblicati per la prima volta nel volume sulla corte di Ludovico il Moro, redatto da Malaguzzi Valeri nel 1913, come esempi di arte rinascimentale; dopo un lungo silenzio delle fonti, furono esposti alla mostra «L’arte a Siena sotto i Medici 1555-1609» tenutasi presso il Palazzo Pubblico del capoluogo toscano nel 1980, iniziando ad attirare gli interessi della critica.
Le pitture inquadrate nelle nicchie del tabernacolo, dapprima
avvicinate al senese Giovan Paolo Pisani e datate sullo scorcio del XVI secolo, sono state successivamente riferite a Giorgio di Giovanni, pittore e architetto senese che risentì dell’influenza di Domenico Beccafumi, e anticipate verso la metà del Cinquecento.
Significative analogie si possono riscontrare con la tavoletta di biccherna raffigurante San Paolo che conforta i senesi nelle tribolazioni dell’assedio, dipinta da Giorgio di Giovanni nel 1555 ed ora conservata presso l’Archivio di Stato di Siena, nella quale la figura del santo è caratterizzata dalla stessa impostazione volumetrica e dalle stesse lumeggiature che animano le vesti dei santi dei candelabri Bagatti Valsecchi.
Giorgio di Giovanni
Metà XVI sec.
Pittura e doratura su legno
height: 190 cm
Inv. 0031
All’apice di una base triangolare di marmo, decorata con figure di sfingi, si innesta il candelabro realizzato in legno dorato con una terminazione a forma di tabernacolo.
Quest’ultimo è composto da quattro profili architettonici determinati da una struttura ad arco sorretta da due lesene, entro la quale si inserisce la figura di un santo: San Michele Arcangelo, Santa Margherita, San Lorenzo e un Santo vescovo privo di attributi specifici.
Il candelabro e il suo pendant (inv. 30) furono pubblicati per la prima volta nel volume sulla corte di Ludovico il Moro, redatto da Malaguzzi Valeri nel 1913, come esempi di arte rinascimentale; dopo un lungo silenzio delle fonti, furono esposti alla mostra «L’arte a Siena sotto i Medici 1555-1609» tenutasi presso il Palazzo Pubblico del capoluogo toscano nel 1980, iniziando ad attirare gli interessi della critica.
Le pitture inquadrate nelle nicchie del tabernacolo, dapprima
avvicinate al senese Giovan Paolo Pisani e datate sullo scorcio del XVI secolo, sono state successivamente riferite a Giorgio di Giovanni, pittore e architetto senese che risentì dell’influenza di Domenico Beccafumi, e anticipate verso la metà del Cinquecento.
Significative analogie si possono riscontrare con la tavoletta di biccherna raffigurante San Paolo che conforta i senesi nelle tribolazioni dell’assedio, dipinta da Giorgio di Giovanni nel 1555 ed ora conservata presso l’Archivio di Stato di Siena, nella quale la figura del santo è caratterizzata dalla stessa impostazione volumetrica e dalle stesse lumeggiature che animano le vesti dei Santi dei candelabri Bagatti Valsecchi.
Jacopo Durandi
Seconda metà del XV sec.
Tempera su tavola
194.5 × 50 cm
Inv. 1017
La tavola, divisa in due registri, rappresenta la figura stante
di San Giovanni Battista, sovrastato da un’edicola che racchiude il mezzo busto di un Santo vescovo, privo di specifici elementi di attribuzione.
Il Battista è raffigurato come eremita, con la tradizionale veste di peli di cammello e il mantello rosso, tra le braccia sorregge una croce astile e l’agnellino, simbolo del sacrificio di Cristo.
Il santo posto nell’edicola soprastante indossa una tunica decorata con fiori rossi e stringe tra le mani un libro finemente rilegato. Si identifica come vescovo per la presenza della mitria e del pastorale ma non ci sono ulteriori attributi iconografici che consentono un’identificazione più precisa.
La coppia di santi, dai tratti piuttosto arcaizzanti, si staglia su un fondo dorato e le due tavole sono racchiuse all’interno di un arco a sesto acuto.
Il dipinto, insieme al suo pendant (inv. 1018), costituiva il pannello laterale di un più ampio polittico articolato su due registri.
Instaurando validi confronti stilistici con il polittico di Notre Dame di Frejus e con il Battesimo di Cristo del Musée Massena di Nizza, entrambe opere di Jacopo Duranti, la critica ha avvicinato i due scomparti alla produzione del pittore nizzardo circoscrivendo la datazione al settimo decennio del XV secolo.
Giacomo (o Giulio) Francia
1520 - 1525 circa
Olio su tavola
69 × 51 cm
Inv. 0997
Dinanzi a una siepe fiorita sono raffigurati la Madonna con il Bambino, San Giuseppe e Sant’Elena riconoscibile dal tradizionale attributo iconografico della croce.
Genuflessa al centro della composizione vi è la Madonna colta nell’atto di sostenere il piccolo Gesù che, torcendosi, si rivolge verso Sant’Elena; la Vergine è caratterizzata da una squillante tunica rossa e da un mantello azzurro foderato di verde, il suo algido volto è incorniciato da un delicatissimo velo ed impreziosito di perle nell’acconciatura.
La tavola, che per le sue modeste dimensioni doveva essere destinata alla devozione privata, è attribuita ai due figli di Francesco Francia, Giacomo e Giulio.
Cronologicamente l’opera si inserisce nella produzione matura dei due fratelli, attestata attorno al 1520-1525, quando il loro stile subisce l’influenza della pittura fiorentina di Andrea del Sarto.
Giovanni, Bernardo e Antonio Marioni
1493
Tempera su tavola
290 × 210 cm
Inv. 1031
L’ampio polittico è strutturato su due registri, ciascuno dei quali composto da tre tavole centinate: al centro si collocano le sculture in legno policromo di San Giovanni Battista, dedicatario dell’opera, e della Vergine mentre ai lati si dispongono le raffigurazioni pittoriche di Santi suddivisi a coppie.
Accanto al Battista vi sono le figure stanti dei Santi Pietro, Giorgio, Sebastiano e Paolo, stagliati su uno sfondo oro e posati su un piano marmoreo che definisce prospetticamente lo spazio; ai lati della Vergine figurano invece i mezzi busti dei Santi Bernardino da Siena, Antonio abate, Maria Maddalena e Caterina d’Alessandria.
L’opera è conclusa dalla raffigurazione dei dodici apostoli, disposti a gruppi di quattro nelle tre tavole che compongono la predella, intervallati da pilastrini con i Santi Alberto carmelitano, Stefano, Lorenzo e Pietro martire.
Il polittico Bagatti Valsecchi è l’unica opera firmata e datata dalla bottega dei Marinoni, casato di pittori originario di Desenzano al Serio, attivo per cinque generazioni nella provincia bergamasca.
Il retablo risale al 1493 e la sua ideazione e realizzazione è da riferire quasi interamente a Giovanni Marinoni, pittore di formazione locale, informato sugli esiti della pittura quattrocentesca di Vincenzo Foppa e Bernardino Butinone, e aperto alle influenze padovane di Mantegna, ravvisabili principalmente nella resa plastica dei panneggi.
L’opera porta la firma anche dei figli Bernardo e Antonio che evidentemente intervennero nelle parti scultoree e nella cornice il primo e a fianco del padre nell’attività pittorica il secondo.
Giulio Raibolini, detto Francia
Prima metà del XVI sec.
Tempera su tavola
60 × 52 cm
Inv. 0996
Tavola di piccole dimensioni di carattere devozionale raffigurante la Madonna con il Bambino, San Giovannino e Maria Maddalena disposti attorno a un parapetto marmoreo.
Cristo, genuflesso sulla balaustra, si pone come intermediario tra San Giovannino, posto davanti al parapetto, e le due figure femminili, contrariamente raffigurate a mezzo busto dietro di esso.
Il Bambin Gesù, sostenuto cautamente dalla Vergine, si protrae verso il cugino afferrando con la mano sinistra la croce astile, con la mano destra invece addita la Maddalena, riconoscibile dal vaso di unguento che esibisce tra le mani.
Il dipinto, attribuito a Giulio Raibolini, figlio del più noto pittore bolognese Francesco Francia, si ispira alle più compiute composizioni del padre, declinate con un ductus corsivo e meno ricercato.
Permangono altresì elementi caratteristici del classicismo neo-quattrocentesco desunti dai modelli di Lorenzo Costa che inducono a ipotizzare una datazione circoscritta al terzo decennio del XVI secolo.
Jacopo Durandi
Seconda metà del XV sec.
Tempera su tavola
194.5 × 50 cm
Inv. 1018
La tavola, divisa in due registri, rappresenta la figura stante
di un Santo Apostolo, sovrastato da un’edicola che racchiude il mezzo busto di San Bernardino da Siena.
Ai piedi della tavola, un’iscrizione rimanda all’identificazione del santo principale, riferendosi a San Bonaventura ma la raffigurazione è priva degli attributi iconografici tipici del santo francescano, solitamente rappresentato come un religioso di mezza età, privo di barba e con il cappello cardinalizio. I basamenti sui quali sono riportati i nomi degli effigiati sono un rifacimento moderno, in cui è stato verosimilmente commesso un errore di trascrizione pertanto, il santo è stato prudentemente identificato con un santo apostolo.
La coppia di santi, dai tratti piuttosto arcaizzanti, si erge su un fondo dorato e le due tavole sono racchiuse all’interno di un arco a sesto acuto.
La tavola, insieme al suo pendant (inv. 1017), costituiva un pannello laterale di un più ampio polittico articolato su due registri.
Instaurando validi confronti stilistici con il polittico di Notre Dame di Frejus e con il Battesimo di Cristo del Musée Massena di Nizza, entrambe opere di Jacopo Duranti, la critica ha avvicinato i due scomparti alla produzione del pittore nizzardo circoscrivendo la datazione al settimo decennio del XV secolo.
Giovan Pietro Gnocchi
Seconda metà del XV sec.
Olio su tela
200 × 135 cm
Inv. 1027
Su un imponente podio marmoreo si colloca il trono della Vergine che è seduta in posizione preminente insieme a Gesù Bambino e a San Giovannino. Ai piedi del basamento vi sono San Sebastiano e San Rocco, identificabili dai tradizionali attributi iconografici: il primo afflitto dalle frecce, il secondo raffigurato in abiti da pellegrino con il bastone, la conchiglia che simboleggia la perseveranza nella fede, la piaga nella gamba e il fido cane posto al centro della composizione.
L’attenzione si catalizza sul Bambin Gesù, rappresentato in atto benedicente, seduto in grembo alla madre che lo osserva amabilmente dall’alto.
Il piede della Vergine posa su una pietra che indica il nome dell’autore e la data di realizzazione dell’opera: Giovan Pietro Gnocchi, 1628. La scritta è indubbiamente frutto di un’integrazione arbitraria dal momento che il pittore milanese morì suicida nel 1609, pertanto sarebbe preferibile riferirla al 1578, anno in cui lo stile dello Gnocchi è intriso di quella cultura manierista milanese maturata a contatto con Giovanni Lomazzo, Aurelio Luini e Simone Peterzano.
La composizione della tavola riconduce proprio al modello di Peterzano della Madonna in trono con il Bambino tra i Santi Sebastiano, Rocco, Francesco e Giuseppe, oggi nella chiesa di Sant’Agostino a Como, che suggerisce le pose plastiche del San Sebastiano e della Vergine e gli ampi panneggi posti teatralmente sullo sfondo.
Andrea Lilio
Primo quarto XVI sec.
Olio su tela
127 × 100 cm
Inv. 1007
All’interno di una complessa cornice pittorica, decorata con
fiori e frutta, è inserita una monumentale figura di armigero seduta su un seggio squadrato con lo sguardo rivolto verso l’alto.
Il soldato esibisce uno scudo istoriato con un’allegoria: in primo piano vi è un putto che suona una viola a cavallo di un mostro marino mentre sullo sfondo è ritratta la personificazione della Fortuna, anch’essa rappresentata sul dorso di un animale marino, sospinta dal soffio di Eolo. L’iconografia del soggetto è interpretabile sulla scorta delle indicazioni dell’Iconologia di Cesare Ripa (Roma, 1603) e potrebbe alludere all’animo Piacevole e Fortunato, descritto come soldato dallo spirito gentile e pio.
L’opera è in relazione con altre tre tele della collezione Bagatti Valsecchi (inv. nn. 1004-1006) riferibili alla sfera delle virtù dell’animo, exempla morali e di deontologia etica; verosimilmente, il ciclo di allegorie doveva comprendere un numero maggiore di tele, destinato a celebrare le virtù di un committente, purtroppo non ancora identificato.
I dipinti entrarono a far parte della collezione Bagatti Valsecchi nel 1880 con una curiosa attribuzione alla scuola di Andrea del Sarto.
Il linguaggio tardo manierista romano evocato dalle sontuose figure ha indotto la critica a riferire le tele dapprima all’ambito del faentino Ferraù Fenzoni e, successivamente, alla tarda produzione dell’anconetano Andrea Lilio, pittore legato al retaggio della maniera, celebrato con astratte contorsioni di figure, campiture di colore piatte e una stesura pittorica definita da contrappunti timbrici.
Andrea Lilio
Primo quarto XVII sec.
Olio su tela
127 × 100 cm
Inv. 1006
All’interno di una complessa cornice pittorica, decorata con
fiori e frutta, è inserita una monumentale allegoria femminile seduta su un seggio squadrato che distribuisce fiori attorno a sé con fare vezzoso.
La figura è caratterizzata da uno sguardo dolce, ingentilito da lunghi capelli ondulati raccolti lateralmente, indossa una lunga tunica marrone, sovrastata da un manto verde scuro e preziosi gioielli che arricchiscono il suo volto.
L’iconografia del soggetto è interpretabile sulla scorta delle indicazioni dell’Iconologia di Cesare Ripa (Roma, 1603): la sua attitudine gioiosa e il sorriso sulle labbra potrebbero alludere alla Liberalità.
L’opera è in relazione con altre tre tele della collezione Bagatti Valsecchi (inv. nn. 1004, 1005, 1007) riferibili alla sfera delle virtù dell’animo, exempla morali e di deontologia etica; verosimilmente, il ciclo di allegorie doveva comprendere un numero maggiore di tele, destinato a celebrare le virtù di un committente, purtroppo non ancora identificato.
I dipinti entrarono a far parte della collezione Bagatti Valsecchi nel 1880 con una curiosa attribuzione alla scuola di Andrea del Sarto.
Il linguaggio tardo manierista romano evocato dalle sontuose figure ha indotto la critica a riferire le tele dapprima all’ambito del faentino Ferraù Fenzoni e, successivamente, alla tarda produzione dell’anconetano Andrea Lilio, pittore legato al retaggio della maniera, celebrato con astratte contorsioni di figure, campiture di colore piatte e una stesura pittorica definita da contrappunti timbrici.
Andrea Lilio
Primo quarto del XVII sec.
Olio su tela
127 × 100 cm
Inv. 1004
All’interno di una complessa cornice pittorica, decorata con fiori e frutta, è inserita una monumentale allegoria maschile seduta su un seggio squadrato.
La figura indossa un etereo panno rosso che la copre parzialmente, mostrando la muscolatura sottostante, e un guanto d’arme sulla mano destra con il quale estrapola la lingua del feroce leone rappresentato ai suoi piedi. L’iconografia del soggetto è interpretabile sulla scorta delle indicazioni dell’Iconologia di Cesare Ripa (Roma, 1603) e potrebbe alludere all’animo Magnanimo e Generoso.
L’opera è in relazione con altre tre tele della collezione Bagatti Valsecchi (inv. nn. 1004, 1006, 1007) riferibili alla sfera delle virtù dell’animo, exempla morali e di deontologia etica; verosimilmente, il ciclo di allegorie doveva comprendere un numero maggiore di tele, destinato a celebrare le virtù di un committente, purtroppo non ancora identificato.
I dipinti entrarono a far parte della collezione Bagatti Valsecchi nel 1880 con una curiosa attribuzione alla scuola di Andrea del Sarto.
Il linguaggio tardo manierista romano evocato dalle sontuose figure ha indotto la critica a riferire le tele dapprima all’ambito del faentino Ferraù Fenzoni e, successivamente, alla tarda produzione dell’anconetano Andrea Lilio, pittore legato al retaggio della maniera, celebrato con astratte contorsioni di figure, campiture di colore piatte e una stesura pittorica definita da contrappunti timbrici.
Andrea Lilio
primo quarto del XVII sec.
Olio su tela
127 × 100 cm
Inv. 1005
All’interno di una complessa cornice pittorica, decorata con fiori e frutta, è inserita una monumentale allegoria femminile seduta su un seggio squadrato che disinvoltamente impugna una lunga asta con la mano destra, mentre con la sinistra esibisce una cornucopia.
La figura indossa una tunica arancione ed è avvolta in un ampio mantello ramato a mezze maniche, ai suoi piedi vi è una tartaruga, parzialmente celata dai panneggi delle vesti.
L’iconografia del soggetto è interpretabile sulla scorta delle indicazioni dell’Iconologia di Cesare Ripa (Roma, 1603) e potrebbe alludere all’equilibrata amministrazione dell’abbondanza e al ponderato uso della ricchezza.
L’opera è in relazione con altre tre tele della collezione Bagatti
Valsecchi (inv. nn. 1005-1007) riferibili alla sfera delle virtù dell’animo, exempla morali e di deontologia etica; verosimilmente, il ciclo di allegorie doveva comprendere un numero maggiore di tele, destinato a celebrare le virtù di un committente, purtroppo non ancora identificato.
I dipinti entrarono a far parte della collezione Bagatti Valsecchi nel 1880 con una curiosa attribuzione alla scuola di Andrea del Sarto.
Il linguaggio tardo manierista romano evocato dalle sontuose figure ha indotto la critica a riferire le tele dapprima all’ambito del faentino Ferraù Fenzoni e, successivamente, alla tarda produzione dell’anconetano Andrea Lilio, pittore legato al retaggio della maniera, celebrato con astratte contorsioni di figure, campiture di colore piatte e una stesura pittorica definita da contrappunti timbrici.
Lippo di Benivieni
Inizio XIV secolo; XV secolo
Tempera su tavola
92 × 79 cm
Inv.1023
L’opera è composta da uno scomparto centrale raffigurante una Madonna con il Bambino realizzata dal pittore fiorentino Lippo di Benivieni e da due tavole laterali – originariamente parte di uno stesso complesso – raffiguranti i Santi Antonio Abate e Pietro Martire, opera di un anonimo pittore lombardo.
Le tre tavole furono assemblate nel XIX secolo ed unite da una cornice dorata, realizzata appositamente per conferire all’opera maggiore continuità.
La tavola centrale, databile attorno al 1310, ricalca la composizione del giottesco polittico di Badia e raffigura il mezzo busto della Vergine, rappresentata frontalmente con il capo leggermente inclinato a destra.
Il Bambino ha uno spirito vivace, con il busto si volge curiosamente alla sua sinistra, mentre è amorevolmente sorretto dalla madre che gli accarezza un piede. Ai margini della composizione appaiono i busti di due angeli che reggono l’uno il chiodo della Passione e l’altro la navicella e il turibolo.
I santi raffigurati nei pannelli laterali risalgono invece alla metà del XV secolo; rispetto allo scomparto centrale, essi manifestano un minor livello qualitativo sicuramente inficiato dalle numerose ridipinture e dall’attuale stato di conservazione.
Maestro del Trittico di Sant'Antonio Abate a Maggianico
Prima metà XVI sec.
Olio su tavola
124 × 37 cm
Inv. 1035
La tavola è dominata dalla figura intera di un Santo apostolo, difficilmente identificabile a causa della mancanza di attributi iconografici specifici oltre al libro di preghiere e alla palma del martirio che stringe tra le mani.
Il santo – posato davanti a un parapetto marmoreo che definisce sommariamente lo spazio – è rappresentato come un uomo maturo contraddistinto da una folta barba e da lunghi capelli ricci ricadenti sulle spalle, indossa una lunga tunica rossa che ricade pesantemente fino ai piedi e un mantello argentato che lo avvolge parzialmente.
Il dipinto è legato ad altre quattro tavole, appartenenti sempre alla collezione Bagatti Valsecchi, raffiguranti San Giacomo (inv. 991), San Giovanni Battista (inv. 1034), Sant’Antonio abate (inv. 1037) e San Patrizio (inv. 1037).
Queste costituivano verosimilmente gli scomparti di un unico polittico, la cui originaria morfologia è ancora dibattuta: presumibilmente San Giacomo costituiva l’elemento centrale di un pentittico ma non si può escludere che le tavole provengano da una struttura più complessa ripartita su due registri.
I dipinti si pongono in stretta aderenza con il linguaggio espresso nel trittico di Sant’Antonio abate in Sant’Andrea a Maggianico presso Lecco, opera di un anonimo autore fortemente legato al retaggio di Gaudenzio Ferrari che, proprio nella cittadina del lecchese realizzò, con largo concorso della bottega, il polittico di Sant’Andrea, oggi in parte alla National Gallery di Londra.
Maestro del Trittico di Sant'Antonio Abate a Maggianico
Prima metà XVI sec.
Olio su tavola
Inv. 0991
La tavola è dominata dalla figura di San Giacomo, rappresentato secondo gli attribuiti canonici che lo definiscono come uomo maturo che regge il libro della predicazione evangelica. Il santo – posato davanti a un parapetto marmoreo che definisce sommariamente lo spazio – è contraddistinto da lunghi capelli scuri e dalla barba rada, indossa una lunga tunica arancione che ricade fino ai piedi e un ampio mantello rosso risvoltato in vita; i soli elementi che lo caratterizzano come pellegrino sono il bastone e il cappello a falde larghe annodato su di esso.
Il dipinto è legato ad altre quattro tavole, appartenenti sempre alla collezione Bagatti Valsecchi, raffiguranti San Giovanni Battista (inv. 1034), un Santo apostolo (inv. 1035), Sant’Antonio abate (inv. 1036) e San Patrizio (inv. 1037). Queste costituivano verosimilmente gli scomparti di un unico polittico, la cui originaria morfologia è ancora dibattuta: presumibilmente San Giacomo costituiva l’elemento centrale di un pentittico ma non si può escludere che le tavole provengano da una struttura più complessa ripartita su due registri. I dipinti si pongono in stretta aderenza con il linguaggio espresso nel trittico di Sant’Antonio abate in Sant’Andrea a Maggianico presso Lecco, opera di un anonimo autore fortemente legato al retaggio di Gaudenzio Ferrari che, proprio nella cittadina del lecchese realizzò, con largo concorso della bottega, il polittico di Sant’Andrea, oggi in parte alla National Gallery di Londra.
Maestro del Trittico di Sant'Antonio Abate a Maggianico
Prima metà del XVI sec.
Olio su tavola
195 × 123 cm
Inv. 1009
All’interno di una ricca carpenteria lignea, si dispongono le raffigurazioni della Madonna in trono con il Bambino tra i Santi Giacomo e Giovanni Battista, entrambi identificabili dai canonici attributi iconografici. Il primo raffigurato in qualità di pellegrino con il libro della predicazione evangelica, il bastone e il cappello a falde larghe appoggiato sulla schiena, il secondo come eremita con vesti in pelle di cammello, l’agnellino tra le braccia e la croce astile con il cartiglio che rimanda al ruolo di vittima sacrificale incarnato da Cristo per la redenzione dei peccati.
Sulla sommità vi è il Compianto di Cristo, inserito in un’elaborata cimasa, raccordata al registro inferiore mediante due ampie volute, nelle quali si inseriscono due clipei che ritraggono due santi domenicani; infine, nella predella sono narrati tre episodi della Passione di Cristo: la Flagellazione, l’Incoronazione di Spine e l’Andata al Calvario.
Nonostante il precario stato di conservazione, che inibisce un affondo critico concreto, è evidente che il linguaggio espresso dall’autore dell’ancona sia affine ai modi di Gaudenzio Ferrari.
I retaggi gaudenziani si esplicitano soprattutto nella Madonna con il Bambino e nel Compianto che sembra altresì debitore dell’invenzione compositiva scorciata proposta nel medesimo tema dal Bramantino della Pinacoteca Ambrosiana.
L’autore sembra pertanto porsi in stretta relazione con il Maestro di Sant’Antonio abate a Maggianico, artista che seppe ben interpretare la lezione del pittore valsesiano alla luce della visione del polittico di Sant’Andrea.
Maestro del Trittico di Sant'Antonio Abate a Maggianico
Prima metà del XVI sec.
Olio su tavola
124 × 37 cm
Inv. 1034
La tavola è dominata dalla figura di San Giovanni Battista rappresentato con il tradizionale aspetto eremitico e penitenziale determinato dalla folta barba e i ricci capelli.
Il santo – posato davanti a un parapetto marmoreo che definisce sommariamente lo spazio – è contraddistinto dalla canonica tunica in peli di cammello sovrastata da un abbondante mantello rosso annodato sulla spalla; tra le braccia stringe un piccolo agnellino e la croce astile.
Il dipinto è legato ad altre quattro tavole, appartenenti sempre alla collezione Bagatti Valsecchi, raffiguranti San Giacomo (inv. 991), un Santo apostolo (inv. 1035), Sant’Antonio abate (inv. 1036) e San Patrizio (inv. 1037).
Queste costituivano verosimilmente gli scomparti di un unico polittico, la cui originaria morfologia è ancora dibattuta: presumibilmente San Giacomo costituiva l’elemento centrale di un pentittico ma non si può escludere che le tavole provengano da una struttura più complessa ripartita su due registri.
I dipinti si pongono in stretta aderenza con il linguaggio espresso nel trittico di Sant’Antonio abate in Sant’Andrea a Maggianico presso Lecco, opera di un anonimo autore fortemente legato al retaggio di Gaudenzio Ferrari che, proprio nella cittadina del lecchese realizzò, con largo concorso della bottega, il polittico di Sant’Andrea, oggi in parte alla National Gallery di Londra.
Maestro del Trittico di Sant'Antonio Abate a Maggianico
Prima metà sec. XVI
Olio su tavola
124 × 37 cm
Inv. 1037
La tavola è dominata dalla figura intera di un santo vescovo identificabile con San Patrizio, caratterizzato dai tradizionali attributi vescovili: la mitria sulla testa, il bastone pastorale e l’ampio piviale sopra la tunica.
Il santo è rappresentato in atto benedicente ed è posato davanti a un parapetto marmoreo che definisce sommariamente lo spazio.
Il dipinto è legato ad altre quattro tavole, appartenenti sempre alla collezione Bagatti Valsecchi, raffiguranti San Giacomo (inv. 991), San Giovanni Battista (inv. 1034), un Santo Apostolo (inv. 1035) e Sant’Antonio abate (inv. 1036).
Queste costituivano verosimilmente gli scomparti di un unico polittico, la cui originaria morfologia è ancora dibattuta: presumibilmente San Giacomo costituiva l’elemento centrale di un pentittico ma non si può escludere che le tavole provengano da una struttura più complessa ripartita su due registri.
I dipinti si pongono in stretta aderenza con il linguaggio espresso nel trittico di Sant’Antonio abate in Sant’Andrea a Maggianico presso Lecco, opera di un anonimo autore fortemente legato al retaggio di Gaudenzio Ferrari che, proprio nella cittadina del lecchese realizzò, con largo concorso della bottega, il polittico di Sant’Andrea, oggi in parte alla National Gallery di Londra.
Gentile Bellini
Seconda metà del XV sec.
Tempera mista a olio su tavola
40 × 29 cm
Inv. 0979
L’opera rappresenta il mezzo busto di Lorenzo Giustiniani, primo Patriarca di Venezia, effigiato di profilo su uno sfondo scuro.
Il beato, raffigurato con il volto scavato e segnato dal tempo, indossa un’ampia tunica color crema e un peculiare copricapo.
La tela è racchiusa in una sontuosa cornice quasi interamente originale se si escludono la cimasa e gli acroteri.
A partire dalla grande tela di Gentile Bellini, raffigurante il ritratto a figura intera di Lorenzo Giustiniani, datata 1465 – ora alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, già in Santa Maria dell’Orto – il soggetto godette di grande fortuna grazie alla proliferazione di numerose copie e derivazioni.
Il dipinto della collezione Bagatti Valsecchi, tuttavia, non si ispira direttamente alla grande tela veneziana ma deriva dall’effige del beato conservata presso l’Accademia Carrara. Le due tavole lombarde risultano affini per l’aspetto più disegnativo, quasi incisorio del modellato, della descrizione fisionomica, oltreché del fondo scuro e derivano da uno stesso prototipo concepito nella bottega di Gentile Bellini, dove furono prodotti numerosi esemplari dell’effige dell’asceta per soddisfare evidenti esigenze devozionali.
La datazione della tavola milanese non trova ancora riscontri documentari ma va collocata necessariamente dopo l’esecuzione della tela veneziana.
Maestro del Trittico di Sant'Antonio Abate a Maggianico
Prima metà del XVI sec.
Olio su tavola
124 × 37 cm
Inv. 1036
La tavola è dominata dalla figura intera di Sant’Antonio abate raffigurato in atto benedicente con i tradizionali attribuiti iconografici: il bastone terminante a forma di tau corredato dalla consueta campanella, allusivi della dimensione ascetica.
Il santo – posato davanti a un parapetto marmoreo che definisce sommariamente lo spazio – è caratterizzato da una lunga barba bianca e dalla classica tonsura, indossa un’atipica tunica arancione e un ampio mantello scuro risvoltato sul fianco.
Il dipinto è legato ad altre quattro tavole, appartenenti sempre alla collezione Bagatti Valsecchi, raffiguranti San Giacomo (inv. 991), San Giovanni Battista (inv. 1034), un Santo Apostolo (inv. 1035) e San Patrizio (inv. 1037).
Queste costituivano verosimilmente gli scomparti di un unico polittico, la cui originaria morfologia è ancora dibattuta: presumibilmente San Giacomo costituiva l’elemento centrale di un pentittico ma non si può escludere che le tavole provengano da una struttura più complessa ripartita su due registri.
I dipinti si pongono in stretta aderenza con il linguaggio espresso nel trittico di Sant’Antonio abate in Sant’Andrea a Maggianico presso Lecco, opera di un anonimo autore fortemente legato al retaggio di Gaudenzio Ferrari che, proprio nella cittadina del lecchese realizzò, con largo concorso della bottega, il polittico di Sant’Andrea, oggi in parte alla National Gallery di Londra.
Maestro di Castelnuovo Scrivia
Inizio XVI sec.
Tempera su tavola
132 × 155 cm
Inv. 1000
Ai piedi di un ampio paesaggio collinare, caratterizzato da lievi pendii e cittadelle fortificate, è rappresentata la Natività con i santi Sebastiano e Rocco in atto di devozione.
I due santi – tradizionalmente invocati per ricevere protezione dalle pestilenze – sono identificabili dai canonici attributi iconografici: san Sebastiano è trafitto dalle frecce mentre san Rocco, in abiti da pellegrino, esibisce la piaga sulla gamba.
La narrazione continua sullo sfondo dove vi è un gruppo di pastori che riceve l’annuncio della nascita di Gesù dall’angelo tratteggiato al centro della composizione.
La tavola, verosimilmente eseguita per l’oratorio della Confraternita alessandrina di san Rocco a Castelnuovo Scrivia, doveva essere originariamente completata dalla lunetta con Cristo in Pietà tra i santi Antonio abate e Cristoforo, attualmente custodita in Sant’Ignazio nella medesima pieve nei pressi di Alessandria.
Entrambi i dipinti esprimono un linguaggio permeato di elementi lombardi e liguri pertanto sono stati inseriti dalla critica nel ristretto numero di opere riferite al Maestro Gabriele da Castelnuovo Scrivia, pittore reclutato nel 1490 da Ludovico il Moro per la decorazione della sala della Balla del Castello di Porta Giovia.
Maestro di Palazzo d'Arco, (Battista Spagnoli?)
Fine XV sec.
Tempera su tavola
45 × 54 cm
Inv. 1014
L’opera raffigura i Santi Sebastiano e Rocco stagliati su uno sfondo scuro e posati su una solida base che contribuisce a definire prospetticamente lo spazio.
San Sebastiano è raffigurato legato a una colonna trafitto da numerose frecce mentre san Rocco, in abiti pellegrini, è caratterizzato dalla peculiare ferita alla gamba.
L’opera, insieme al suo pendant raffigurante i santi Antonio e Caterina d’Alessandria (inv. 1013), proviene dal mercato antiquario mantovano, come dimostra una fotografia dell’archivio di Stefano Bardini, datata 1899, significativo documento del primigenio montaggio delle tavole. Originariamente i quattro santi erano disposti verticalmente: sant’Antonio era posto sopra a san Sebastiano mentre santa Caterina sopra a san Rocco, in una configurazione che induce a sostenere che i dipinti costituissero gli sportelli di un tabernacolo destinato alla devozione privata; la conformazione attuale si deve ai fratelli Bagatti Valsecchi che inserirono arbitrariamente le tavolette nelle attuali cornici di epoca ottocentesca.
Datate tra l’ottavo e il nono decennio del Quattrocento, le tavole sono state riferite in principio a un anonimo pittore lombardo di ambito cremonese e infine attribuite al Maestro di Palazzo d’Arco, pittore di cultura mantovana-veronese, a lungo considerato come alter ego di Niccolò Solimani, ed ora identificato dubitativamente con il carmelitano Battista Spagnoli.
attributed to Maestro di Palazzo d'Arco, (Battista Spagnoli?)
fine XV sec.
Tempera su tavola
45 × 54 cm
Inv. 1013
L’opera raffigura i Santi Antonio da Padova e Caterina d’Alessandria stagliati su uno sfondo scuro e posati su una solida base che contribuisce a definire prospetticamente lo spazio.
Sant’Antonio, caratterizzato dalla classica tonsura e dal tipico abito francescano, è raffigurato mentre stringe un libro fra le mani, accanto vi è santa Caterina d'Alessandria, rappresentata con una lunga tunica rossa e un mantello scuro, che esibisce i propri attributi iconografici: la ruota dentata, stretta nella mano destra, e la palma del martirio nella mano sinistra.
L’opera, insieme al suo pendant raffigurante i santi Sebastiano e Rocco (inv. 1014), proviene dal mercato antiquario mantovano come dimostra una fotografia dell’archivio di Stefano Bardini, datata 1899, significativo documento del primigenio montaggio delle tavole.
Originariamente i quattro santi erano disposti verticalmente: sant’Antonio era posto sopra a san Sebastiano mentre santa Caterina sopra a san Rocco, in una configurazione che induce a sostenere che i dipinti costituissero gli sportelli di un tabernacolo destinato alla devozione privata; la conformazione attuale si deve ai fratelli Bagatti Valsecchi che inserirono arbitrariamente le tavolette nelle attuali cornici di epoca ottocentesca.
Datate tra l’ottavo e il nono decennio del Quattrocento, le tavole sono state riferite in principio a un anonimo pittore lombardo di ambito cremonese e infine attribuite al Maestro di Palazzo d’Arco, pittore di cultura mantovana-veronese, a lungo considerato come alter ego di Niccolò Solimani, ed ora identificato dubitativamente con il carmelitano Battista Spagnoli.
Lorenzo di Niccolò
1409
Tempera su tavola
136 × 70 cm
Inv. 0998
Il dipinto rappresenta le figure stanti dei Santi Francesco e Maria Maddalena sovrastati, sulla cimasa, dal profeta Isaia.
L’opera costituisce il pannello laterale destro di un polittico che è stato parzialmente ricostruito da Federico Zeri e successivamente attribuito al fiorentino Lorenzo di Niccolò di Martino.
La tavola centrale dell’originario polittico è stata individuata nella Madonna con il Bambino conservata presso la Cappella del Noviziato (o Cappella Medici) della chiesa fiorentina di Santa Croce mentre lo scomparto laterale sinistro è stato identificato con la tavola raffigurante i Santi Giuliano e Ludovico di Tolosa, sovrastati dal profeta Geremia, attualmente conservata presso le Gallerie Fiorentine.
Il polittico era verosimilmente concluso da tre cuspidi che ricalcavano la struttura proposta da Lorenzo di Niccolò nel polittico dell’Incoronazione della Vergine, commissionato nel 1402 per l’altare maggiore della chiesa di San Marco a Firenze.
La Madonna con il Bambino è datata 1409 e consente di orientare l’esecuzione di tutte le tavole che componevano l’originario polittico che si inserisce così nella fase matura dell’artista, caratterizzata da una spiccata aderenza allo stile tardogotico di Lorenzo Monaco e del Maestro di Baldese.
La collocazione originaria dell’opera è un problema ancora aperto, attualmente indagato in ambito francescano per la presenza di due santi appartenenti a quest’ordine: l’ipotesi più accreditata presume una provenienza proprio dalla Basilica di Santa Croce, ed in particolare dalla cappella dedicata a San Giuliano, giustificata dalla posizione d’onore ricoperta dal santo, raffigurato alla destra della Vergine con il Bambino.
circle of Maestro Paroto
Metà XV sec.
Tempera su tavola
238 × 168 cm
Inv. 1025
Polittico tardogotico composto da una tavola centrale raffigurante la Madonna con il Bambino, affiancata da un doppio registro di santi: nell’ordine inferiore le figure stanti
dei Santi Vito, Giorgio, Giovanni Battista e un santo probabilmente identificabile con Modesto e, nel registro superiore, i mezzi busti di un Santo vescovo (Siro?), i Santi Pietro, Giacomo Apostolo e Michele Arcangelo.
Lo scomparto centrale è sormontato dalla rappresentazione della Crocifissione culminante, come i pannelli laterali, con cuspide e pinnacoli.
Nella predella sono presenti dodici formelle quadrilobate che racchiudono la rappresentazione di problematiche figure a mezzo busto reggenti un cartiglio.
Sulla scorta dei santi rappresentati è stata ipotizzata una provenienza dalla chiesa dei Santi Vito e Modesto di Pescarzo, anticamente parte della pieve di Cemmo. La proposta è corroborata dalle strette analogie stilistiche che legano il retablo Bagatti Valsecchi con il polittico già nella collezione newyorkese di Wildenstein, eseguito per il fonte battesimale dell’antica pieve di San Siro a Cemmo in Val Camonica dal Maestro Paroto, pittore tardogotico contraddistinto da una spiccata aderenza ai modi di Michelino da Besozzo. Contrariamente all’opera del pittore camuno, il polittico milanese si caratterizza per una maggiore componente filo-veneta, interpretata con un linguaggio più schiettamente lombardo comparabile all’ambito della cerchia del Maestro Paroto ma non identificabile con il Maestro stesso.
Martino Martinazzoli da Anfo
1518
Tempera su tavola
165 × 58 cm
Inv. 1030
La tavola rappresenta un verdeggiante paesaggio rupestre dal quale emerge solennemente Cristo risorto erto sul sarcofago aperto.
L’imponente figura, parzialmente avvolta in un ampio panneggio animato da pieghe geometriche e profonde, è raffigurata in atto benedicente con in mano una croce astile con vessillo. Contraddistinto da un’anatomia poco indagata, Cristo si erge instabilmente sul bordo del sepolcro, conferendo una sensazione di precario equilibrio alla figura. Sul fronte del sarcofago vi è un cartiglio che riporta il nome dell’autore e la data di esecuzione: la tavola è infatti opera del pittore valsabbino Martino Martinazzoli ed è datata 1518.
La composizione è esemplata sul Salvator Mundi inciso da Luca da Leida attorno al 1506, oggi noto in un unico esemplare conservato presso la National Gallery of Art di Washington ma di cui si deve ipotizzare una conoscenza diretta da parte del pittore.
Pittore anonimo
Seconda metà XV sec.
Olio su tavola
31 × 21 cm
Inv. 0983
Il trittico pieghevole, ancora dotato delle cerniere originarie, rappresenta ad ante aperte l’Imago Pietatis affiancata dalle figure stanti dei santi Girolamo e Alberto mentre, ad ante chiuse, presenta la raffigurazione dell’Annunciazione.
Il tabernacolo dapprima riferito da Gian Alberto Dell’Acqua a un generico «pittore lombardo» della seconda metà del XV secolo con sottili influssi padovano-ferraresi, è stato successivamente avvicinato da Andrea De Marchi all’ambito marchigiano di Pietro Alemanno.
Tuttavia, la pellicola pittorica molto impoverita e ampiamente ridipinta non consente di circoscrivere l’opera ad un preciso ambito culturale e cronologico ed è pertanto da riferirsi ad un generico pittore di area settentrionale attivo tra il XV e il XVI secolo.
Pittore emiliano
1420-1425 circa
Tempera su tavola
118 × 57 cm
Inv. 1024
Il dipinto raffigura la Madonna in trono con il Bambino affiancata da sei angeli disposti attorno al raffinato trono architettonico sul quale la Vergine è seduta.
Le figure, stagliate sullo sfondo dorato, si presentano elegantemente allungate e filiformi, caratterizzate da una grazia compositiva e sentimentale che si traduce nel languido scambio di sguardi dei soggetti e nella delicata carezza che il Bambino porge sul volto della madre.
La piccola tavola centinata a sesto acuto è racchiusa in una cornice dorata caratterizzata da due colonnine tortili sui lati e da un fastigio a motivi vegetali sulla sommità.
Il dipinto, opera di un anonimo maestro attivo in area emiliana intorno al terzo decennio del XV secolo, è stato avvicinato dalla critica alla produzione del pittore Antonio Alberti, valido interprete della stagione tardogotica ferrarese.
Efficaci termini di paragone si instaurano con gli affreschi della Cappella di San Martino eseguiti tra il 1420 e il 1425 per la chiesa della Sagra di Carpi e con l’Adorazione dei Magi della chiesa di Sant’Aldebrando a Fossombrone, realizzata entro il secondo decennio del Quattrocento, che presenta fisionomie e lineamenti affini a quelli delineati nella tavola Bagatti Valsecchi.
Pittore lombardo
Fine XV sec.
Affresco strappato
90 × 63 cm
Inv. 1005
L'affresco, di provenienza sconosciuta, raffigura una Madonna che allatta il Bambino inserita in uno sfondo caratterizzato da elementi decorativi geometrici e vegetali.
La scena è racchiusa all'interno di una cornice marmorea intagliata con tracce di colorazione in oro e azzurro.
L’opera è stata ritagliata e inserita sulla piccola parete a destra della corte presumibilmente durante i lavori di ristrutturazione del palazzo, occorsi alla fine dell'Ottocento.
L’autore dell'opera rimane ancora sconosciuto ma, sulla base di caratteristiche arcaiche delle figure e da un non perfetto uso della prospettiva, è da imputare a un'artista lombardo di fine XV secolo di mediocre qualità.
Pittore lombardo
Prima metà del XVI sec.
Tempera su tavola
295 × 255 cm
Inv. 1032
Il polittico è composto da tre tavole centinate raffiguranti la Madonna in trono con il Bambino tra i Santi Lorenzo e Stefano; sopra ad un architrave con fregio intagliato si inserisce la cimasa con la rappresentazione di Dio Padre benedicente, affiancata dalle figure dell’Arcangelo Gabriele e della Vergine annunciata tratteggiate all’interno di due volute che raccordano la porzione superiore dell’opera con quella inferiore. Infine, nella predella, si collocano le raffigurazioni dei dodici apostoli strette tra le figure dei Santi Sebastiano e Rocco.
L’opera è stata ricondotta dalla critica a un autore di area lombarda che si innesta sulla tradizione di Bernardo Zenale e Ambrogio da Fossano.
Proprio al Bergognone rimandano le figure del Padre Eterno e dell’Annunciazione che sembrano ricalcare le figure proposte dal pittore fossanese nel polittico di Santo Spirito di Bergamo. Al contrario, i santi raffigurati negli scomparti laterali sono riconducibili al modello del polittico di Cantù di Zenale mentre la Madonna in trono sembra evocare modelli spanzottiani.
Validi termini di confronto si instaurano con la produzione del pittore varesino Francesco de Tatti e più ancora con quella di Stefano da Pianello, interprete della cultura spanzottiana in area lombarda.
Pittore lombardo
Sec. XVI - sec. XVII, con integrazioni del XIX sec.
Olio su tela
75 × 800 cm
Inv. 1471
Il disimpegno che collega la Galleria delle Armi e la Sala da Pranzo è decorato da quattro tele collocate immediatamente sotto al soffitto e disposte senza soluzione di continuità lungo le pareti dell’ambiente a imitazione di un vero e proprio fregio decorativo.
Le tele acquistate dai fratelli Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi presentavano dimensioni ridotte rispetto ai vani che attualmente le ospitano di conseguenza, a fine Ottocento, furono integrate con figurazioni in stile poste sulle terminazioni esterne. I dipinti raffigurano scene allegoriche di difficile interpretazione: si distinguono alcune figure riferibili alle personificazioni delle arti – in particolare, l’Architettura, la Geometria e la Letteratura – e alcuni fanciulli rappresentati durante le diverse fasi dell’apprendimento intenti alla scrittura e alla lettura, si tratta pertanto di temi improntati all’educazione e all’insegnamento.
La monumentalità delle figure e la teatralità dei panneggi richiamano dettami della maniera mentre le cromie e l’uso dei colori evocano soluzioni venete; nulla si sa in merito all’autore e alla datazione del ciclo che è stato genericamente riferito all’ambito lombardo cinque-seicentesco.
Pittore lombardo e Giacomo Campi
Sec. XVI con integrazioni del XIX sec.
Tempera su tela
175 × 190 cm
Inv. 1097
Il grande salone di casa Bagatti Valsecchi è decorato da sedici riquadri pittorici disposti come un fregio decorativo appena sotto al soffitto.
Ogni riquadro è composto da una scena desunta dagli omerici racconti relativi alla Guerra di Troia e da una cornice architettonica che enfatizza gli episodi mediante la raffigurazione di mascheroni, putti e ghirlande.
Le scene decorative non seguono la cronologia della narrazione omerica ma si dispongono in modo arbitrario lungo le pareti del salone: i lati lunghi ospitano cinque riquadri mentre in quelli corti se ne collocano tre.
Il ciclo si snoda attorno a quattro affreschi riportati su tela, di
origine cinquecentesca, a cui vennero aggiunte in epoca
ottocentesca dodici tele dipinte a tempera con un’operazione di completamento ex novo del primigenio ciclo pittorico; all’Ottocento sono da riferire anche le panoplie vegetali che si alternano alle scene istoriate mentre le figure di fauni e satiri ai lati delle raffigurazioni sono ascrivibili al XVI secolo.
Gli affreschi cinquecenteschi sono stati attribuiti all’ambito cremonese e avvicinati ai modi di Bernardino Campi per la resa calligrafica dei panneggi e la trattazione longilinea ed aggraziata delle figure mentre le tele ottocentesche sono state riferite a Giacomo Campi, pittore milanese documentato attivo in altre parti del palazzo.
Le integrazioni sono sapientemente ispirate a modelli cinquecenteschi evidenti principalmente nelle scene di battaglia e nella scena della Fuga da Troia in fiamme, nella quale le figure di Enea e Anchise sembrano letterali citazioni del raffaellesco Incendio di Borgo.
Pittore pavese
Ultimo quarto del XV sec.
Tempera su tavola
141 × 244 cm
Inv. 1008
Il polittico, formato da cinque scomparti definiti da archetti polilobati e colonnine tortili, raffigura la Crocifissione di Cristo affiancata dalle figure dei santi Giovanni Battista, Francesco, Bernardino da Siena e Caterina d’Alessandria.
La Crocifissione è ambientata su uno sperone roccioso alla presenza della Vergine Maria, Giovanni Evangelista, Maria Maddalena inginocchiata ai piedi della croce e di due figure angeliche.
Le tavole, spiccatamente affini al retaggio di Vincenzo Foppa, sono state avvicinate da Federico Zeri a numerose opere distribuite in diverse collezioni pubbliche e private, attribuite alla mano di un anonimo pittore pavese schiettamente legato allo stile del Maestro bresciano.
Gli evidenti rapporti di sproporzione tra le figure che animano
la rappresentazione della Crocifissione e i santi dei pannelli laterali hanno indotto la critica a congetturare che le tavole Bagatti Valsecchi componevano originariamente un più grandioso polittico francescano disposto su due ordini.
Al centro del registro superiore avrebbe trovato posto la Crocifissione, corrisposta nell’ordine inferiore da La Madonna degli angeli rintracciata in una collezione privata piemontese, mentre il corredo di santi disposti nelle tavole laterali sarebbe stato rinvigorito dai numerosi ritrovamenti attribuiti all’anonimo pavese.
La questione cronologica trova una possibile soluzione nella datazione iscritta lungo il margine inferiore de La Madonna degli angeli – 1481 – che orienta verosimilmente l’esecuzione dell’intero polittico Bagatti Valsecchi.
Pittore valsesiano
Seconda metà del XVI sec.
Olio su tavola
140 × 105 cm
Inv. 1029
La tavola rappresenta una vivace Adorazione dei Magi alla presenza di San Lorenzo e di un Santo vescovo, identificabile dubitativamente con San Gaudenzio.
La narrazione prende avvio dal secondo piano dove sono raffigurati i tre Magi a cavallo che si dirigono verso Betlemme seguendo la stella cometa. In primo piano vi è Melchiorre inginocchiato ai piedi del Bambino benedicente, posto in grembo alla Vergine Maria; seguono Gaspare e Baldassarre che, in attesa di rendere omaggio al Bambin Gesù, esibiscono i loro doni entro preziose coppe.
Concludono la composizione un Santo vescovo in atto benedicente, connotato dalla mitria e dal pastorale, San Lorenzo contraddistinto dalla graticola e dalla palma del martirio e, infine, San Giuseppe posto in prossimità della mangiatoia dentro la quale sono delineate le figure dell’asino e del bue.
L’opera è da riferirsi a un modesto pittore valsesiano legato al retaggio della tradizione di Gaudenzio Ferrari filtrato nell’intensità cromatica dalle opere di Teseo Cavallazzi. La frequentazione dell’ambito gaudenziano è dimostrata dalla conoscenza diretta dell’Adorazione dei Magi di Bernardino Lanino, eseguita nel 1553 per la chiesa di Santa Croce a Novara, da cui il pittore della tavola Bagatti Valsecchi desume il gruppo di figure in primo piano.
Giovanni Pietro Rizzoli, detto il Giampietrino
1535 circa
Olio su tavola
95 × 92 cm
lunghezza 950mm
Inv. 1011
Assiso su un ampio trono marmoreo, enfatizzato da un drappo rosso che ne delimita i contorni, Cristo è rappresentato in atto benedicente mentre esibisce il globo crucigero, secondo la tradizionale tipologia del Salvator Mundi.
La tavola era originariamente inclusa in un più complesso polittico (inv. 1010) che fu verosimilmente smembrato a causa delle sue imponenti dimensioni, incompatibili con gli spazi della camera di Fausto Bagatti Valsecchi dove, ancora oggi, si conserva.
Il dibattito critico si è acceso attorno alla composizione originaria del polittico che, presumibilmente, si conformava come un trittico disposto su due ordini: uno schema ricorrente nella Lombardia rinascimentale proposto da Butinone e Zenale nel polittico di Treviglio e dal Foppa nel polittico delle Grazie.
Coerentemente, la Madonna con il Bambino si affiancherebbe ai Santi Giovanni Battista e Giorgio – entrambi inseriti entro nicchie semicircolari e posati su piani d’appoggio prospettici, con una visione dall’alto – mentre il Redentore benedicente si collocherebbe nel registro superiore tra le Sante Maria Maddalena e Marta, differentemente inserite in nicchie squadrate e posate su piani d’appoggio frontali.
L’opera è unanimemente attribuita a Giovanni Pietro Rizzoli, detto il Giampietrino, pittore documentato a Milano dal 1508, ed è riferibile al quarto decennio del Cinquecento, quando l’artista si dimostra incline alle influenze raffaellesche, principalmente mediate dalla produzione di Cesare da Sesto.
Giovanni Pietro Rizzoli, detto il Giampietrino
1535 circa
olio su tavola
133 × 94 cm
Inv. 1010
Ampio polittico raffigurante al centro la Madonna in trono con il Bambino affiancata dai Santi Giovanni Battista, Maria Maddalena, Marta e Giorgio connotati dai tradizionali attributi iconografici: l’aspetto eremitico e le vesti in pelle di cammello identificano Giovanni Battista, Maria Maddalena esibisce il vasetto di unguenti, Marta è accompagnata dal drago mentre Giorgio, qualificato anch’esso dalla presenza del feroce mostro, indossa la peculiare veste da soldato.
Originariamente, il polittico era arricchito da una tavola quadrangolare raffigurante il Redentore benedicente (inv. 1011); il complesso fu verosimilmente smembrato a causa delle sue imponenti dimensioni, incompatibili con gli spazi della camera di Fausto Bagatti Valsecchi dove, ancora oggi, si conserva.
Il dibattito critico si è acceso attorno alla composizione originaria del polittico che, presumibilmente, si conformava come un trittico disposto su due ordini: uno schema ricorrente nella Lombardia rinascimentale proposto da Butinone e Zenale nel polittico di Treviglio e dal Foppa nel polittico delle Grazie.
Coerentemente, la Madonna con il Bambino si affiancherebbe ai Santi Giovanni Battista e Giorgio – entrambi inseriti entro nicchie semicircolari e posati su piani d’appoggio prospettici, con una visione dall’alto – mentre il Redentore benedicente si collocherebbe nel registro superiore tra le Sante Maria Maddalena e Marta, differentemente inserite in nicchie squadrate e posate su piani d’appoggio frontali.
L’opera è unanimemente attribuita a Giovanni Pietro Rizzoli, detto il Giampietrino, pittore documentato a Milano dal 1508, ed è riferibile al quarto decennio del Cinquecento, quando l’artista si dimostra incline alle influenze raffaellesche, principalmente mediate dalla produzione di Cesare da Sesto.
copy from Joos Van Cleve
Sec. XVI - sec. XIX
Olio su tela
82 × 54 cm
Inv. 1021
La Madonna siede su un trono architettonico di cui si vede solo il bracciolo sinistro che le sorregge il gomito mentre il Bambino, disordinatamente seduto sul suo grembo, è raffigurato nella classica posa contrapposta desunta dallo stilema vinciano.
La Vergine è caratterizzata da lineamenti fisionomici fini, indossa una tunica rossa stretta in vita da un ampio nastro e un mantello scuro foderato di arancione, il suo sguardo è rivolto verso Gesù che ricambia dolcemente mentre stringe tra le mani un rametto di ciliegie.
La scena è incorniciata da un drappo marrone e da uno spaccato paesaggistico che si apre alle spalle del Bambino. L’attribuzione dell’opera è stata molto dibattuta: avvicinata dapprima all’ambito cinquecentesco ferrarese, prossimo ai modi del Garofalo, è stata poi circoscritta alla cerchia leonardesca.
L’archetipo è stato individuato nell’opera del pittore fiammingo Joos van Cleve che riproduce la Madonna delle ciliegie eseguita dal Giampietrino nel 1523 ed ora in collezione Schazmann a Ginevra.
Tuttavia, la qualità e la tecnica dell’opera inducono a sostenere che si tratti di un’opera ben più tarda desunta dall’unione del dipinto di Joos van Cleve con il modello originario del Giampietrino.
Turino Vanni
Inizio XV sec.
Tempera su tavola
67 × 40 cm
Inv. 0981
Tavola di piccole dimensioni raffigurante la Madonna in trono con il Bambino, circondata da San Bartolomeo e San Michele Arcangelo sulla sinistra e Sant’Antonio Abate e San Gabriele Arcangelo sulla destra.
Alle spalle della Vergine, caratterizzata da tratti piuttosto arcaizzanti, si collocano due angeli reggicortina che sorreggono un prezioso drappo rosso.
Il dipinto è stato inserito nel catalogo di Turino Vanni, pittore pisano formatosi sui modelli di Neruccio Federighi e Gera da Pisa, contraddistinto da un linguaggio eclettico segnato dalla tradizione pittorica locale e dalle più aggiornate tendenze provenienti da Firenze e Siena, espresse in particolar modo da Taddeo di Bartolo e Niccolò di Pietro Gerini.
L’anconetta è databile nel pieno dell’attività dell’artista, nei primissimi anni del XV secolo, congiuntamente alla Madonna con il Bambino del Museo di Cluny e alla pala della chiesa parrocchiale di Rigoli.
Bernardo Zenale
Fine XV sec.
Tempera e olio su tavola
65 × 27 cm
Inv. 0994
All’interno di una nicchia semicircolare si staglia la raffigurazione di Santa Caterina d’Alessandria.
La santa, raffigurata con lunghi boccoli che le cadono sulle spalle, indossa un ampio mantello rosso e una tunica color crema che cade morbidamente fino ai piedi, increspandosi all’altezza del ginocchio lievemente piegato.
Sul lato sinistro della composizione è rappresentata una raffinata spada, che conferisce slancio e verticalità alla figura, altrimenti soverchiata dai numerosi attributi iconografici che stringe a sé: la ruota dentata imbracciata vigorosamente, il libro e la palma del martirio stretti al petto. La tavola, insieme al suo pendant raffigurante un santo vescovo (inv. 995), poteva verosimilmente costituire lo scomparto laterale di un complesso polittico di cui ancora si ignora la provenienza.
Inizialmente avvicinate al Civerchio, le tavole sono state successivamente ricondotte all’ambito di Bernardo Zenale seppur con talune perplessità circa la sua piena autografia.
Datati alla metà dell’ultimo decennio del XV secolo, i dipinti non hanno ancora subìto l’influsso leonardesco che connoterà l’attività più matura del maestro trevigliese.
Bernardo Zenale
Fine XV sec.
Tempera e olio su tavola
68.5 × 26.9 cm
Inv. 0995
All’interno di una nicchia semicircolare si staglia la raffigurazione di un santo vescovo.
Il santo indossa un lungo piviale foderato di rosso e una tunica color crema che cade pesantemente fino a terra coprendogli i piedi. Caratterizzato dalla mitra e dal pastorale che stringe nella mano sinistra insieme ad un libro, il santo non presenta specifici simboli iconografici che consentirebbero una più certa identificazione.
La tavola, insieme al suo pendant raffigurante santa Caterina d’Alessandria (inv. 994), poteva verosimilmente costituire lo scomparto laterale di un complesso polittico di cui ancora si ignora la provenienza.
Inizialmente avvicinate al Civerchio, le tavole sono state successivamente ricondotte all’ambito di Bernardo Zenale seppur con talune perplessità circa la sua piena autografia.
Datati alla metà dell’ultimo decennio del XV secolo, i dipinti non hanno ancora subìto l’influsso leonardesco che connoterà l’attività più matura del maestro trevigliese.
Pittore bergamasco
Prima metà XVI sec.
Olio su tavola
Inv. 0985
Tavola di piccole dimensioni dominata dalla figura di San Rocco raffigurato secondo gli attributi canonici che lo definiscono come uomo maturo, connotato da barba e capelli scuri. In qualità di pellegrino è rappresentato sostenuto dal bastone, con un ampio tabarro e una leggera tunica, sollevata da un lembo per mostrare la piaga sulla gamba.
Il Santo posa saldamente su un terreno sassoso sul quale è tratteggiata anche la figura del fido cane, raggomitolato ai suoi piedi. Il dipinto, derivato verosimilmente dalla predella o dal basamento di un’ancona, è opera di un modesto pittore bergamasco legato al retaggio di Lorenzo Lotto, di cui sembra evocare il San Giacomo Maggiore del Museo Villa Colloredo Mels di Recanati.
La cultura lottesca appare nota al pittore della tavoletta Bagatti Valsecchi mediante la produzione di Agostino Facheris da Caversegno di cui richiama il polittico di San Giacomo a Piazzatorre eseguito nel 1537, data che non dovrebbe discostarsi molto dall’esecuzione del San Rocco.